Bambini, donne, migranti e altri animali. Come cambiano le città
Giancarlo Paba (Università di Firenze)
Più volte sono stato tentato di dare questo titolo ad alcuni miei interventi pubblici. Mi ha sempre frenato il timore delle reazioni di fastidio che avrebbe potuto suscitare. Insieme alle altre categorie menzionate, i bambini fanno parte di una minoranza di persone definite in negativo. Ciò che accomuna bambini, donne e stranieri nella rappresentazione che normalmente ne diamo e che condiziona il nostro modo irriflesso di comportarci nei loro confronti è di essere dei soggetti ai quali “manca qualche cosa”. A partire dall’ordine del discorso, dalla loro definizione: la prima etimologia di infanzia, “colui che non parla”, mette in rilievo ciò che il bambino non sa fare. Gli stranieri a loro volta sono coloro che non sono nati in questo paese, che non parlano la nostra lingua. E anche le donne, e gli animali, sono pensati come creature cui manca qualcosa.
La domanda più urgente che, in quanto urbanista, orienta la mia ricerca è: come si trasformano e come migliorano le città? Normalmente siamo portati a credere che le città cambino in relazione all’intervento di urbanisti, architetti o amministratori, che l’assetto fisico di un luogo migliori se viene realizzata una più efficace struttura urbanistica, se si adeguano i servizi ai bisogni, se il piano della viabilità è efficace. Insomma, se alcuni esperti, in possesso del titolo e dei certificati necessari, si siedono intorno a un tavolo e decidono come migliorare i luoghi in cui viviamo… Niente di meno vero.
A mio parere le città si trasformano per una meccanica molto sottile e molto difficile da descrivere, nella quale donne, bambini, migranti e altri animali recitano un ruolo fondamentale. Cerco di spiegarmi prendendo a prestito la definizione che i due scienziati americani Eric Schneider e Dorion Sagan hanno dato del secondo principio della termodinamica, quello in base al quale il mondo tendenzialmente si appiattisce, le montagne crollano, le culture spariscono, le temperature si avvicinano al valore intermedio… Come dire, un principio scientifico pessimistico! Questi scienziati si esprimono al contrario in modo tale da consentirci di cogliere la possibilità del cambiamento invece che l’attesa dell’appiattimento. Essi affermano: “la natura odia i gradienti”. In natura ci sono gradi diversi di altezza, di temperatura, di forma, di energia… Due corpi che hanno temperature differenti, ad esempio, entrando in contatto si comporteranno in modo tale da raggiungere la stessa temperatura. Ma per raggiungere questo risultato, durante il processo scambieranno energia e produrranno una nuova “organizzazione”.
I due scienziati americani suggeriscono: piuttosto che farci terrorizzare dal risultato finale, concentriamoci sullo scambio, sul momento in cui le differenze entrano in contatto fra di loro. Nell’osservare i gradienti di una città, di un territorio, di una cultura, le differenze di linguaggio, di visione sociale, di affettività, entrando in contatto sprigionano energia. Riprendendo la mia domanda iniziale quindi, possiamo dire che è la differenza che fa cambiare le città. È il tentativo di superare i gradienti e poi di riprodurli, magari su un piano più elevato, che le migliora.
Prendiamo l’esempio degli stranieri: se giudichiamo il loro comportamento e le loro abitudini come “difettivi” rispetto alla norma, non riusciremo a cogliere l’energia di trasformazione di cui sono portatori, non sapremo vedere il potenziale positivo di cambiamento che possono esercitare nella trasformazione della città. Si dice che gli stranieri mancano della competenza linguistica. Penso che non ci sia niente di più falso. In generale gli stranieri presenti in Italia hanno una competenza linguistica superiore a quella di un amministratore pubblico medio. Se noi iniziamo a ragionare non in termini di ciò che ancora non sanno, ma delle competenze che possiedono (la loro lingua, un po’ di italiano, di tedesco e di altri idiomi) si può sostenere senza timore di smentita che generalmente la competenza linguistica intesa come capacità di maneggiare linguaggi (non come conoscenza della grammatica italiana) è mediamente più alta di quella di noi stanziali. Per vivere in un mondo complicato occorre avere una notevole competenza linguistica, una grande capacità di farsi capire: attraversare il mare su una barca guidata da stranieri, oltrepassare confini geografici, trovare un lavoro costringe a usare modi di espressione e comunicazione molto differenziati.
C’è un’affermazione vera se intesa nei giusti termini, opportunistica se usata dai nostri politici, che definisce le minoranze più o meno in questi termini: “i bambini sono una risorsa”, “gli immigrati sono una risorsa” e via di seguito. Ma in che senso, ad esempio, gli immigrati rappresentano una risorsa? Se pensiamo alla scuola italiana, l’allarmistico ritornello che sentiamo sempre più spesso riguarda la presenza massiccia di stranieri nelle classi. Di conseguenza – questo l’assioma che se ne deduce – la scuola italiana è in crisi. In realtà la scuola italiana era in crisi ben prima che arrivassero i bambini stranieri. La loro presenza rappresenta semmai l’occasione per mettere in discussione il modo in cui la scuola si è strutturata nei decenni precedenti, ripensando metodi, programmi, obiettivi.
Sulla base di esigenze che non avevamo previsto e di “gradienti” che si sono nel frattempo formati, nei prossimi dieci anni dovremo riformare almeno tre, quattro macrosistemi sociali rilevanti: il sistema formativo, quello sanitario, quello lavorativo e in generale i sistemi di protezione sociale. La presenza degli stranieri li mette in mette in crisi, ma proprio per questo dobbiamo intervenire a modificarli. La città cambia perché il reticolo della vita detta le ragioni del cambiamento.
In questa popolazione animalesca di specie difettive, i bambini rappresentano una sfida naturale per il cambiamento. Nella modalità tradizionale di pensare ai bambini c’è una corrispondenza perfetta tra la loro definizione di “infanti”, ovvero di persone che ancora “non sanno”, e l’idea di formazione che ne consegue. Se il bambino è concepito in riferimento a “ciò che ancora non è”, a quello che ancora manca nella sua testa, l’unica strategia pedagogica che possiamo mettere in atto è riempirla, quella testa. La metafora che descrive questa visione educativa è quella dell’imbuto: ci mettiamo dentro un po’ di valori, un po’ di conoscenze, un po’ di religione, un po’ di consapevolezza critica… Ma non è così che “funzionano” i bambini.
Studi recenti sul funzionamento del cervello e del sistema cognitivo, mettono semmai in evidenza che l’evoluzione dei bambini, della loro competenza linguistica e spaziale, della loro capacità di manipolare gli oggetti, di relazionarsi ad altri esseri viventi, avviene attraverso modalità sottili di “spegnimento” di alcune facoltà e di “specializzazione” di altre, ma a partire da una riduzione delle potenzialità di partenza. Il bambino, all’inizio, è un “troppo pieno”, non un vuoto.
L’invito che faccio è quello di imparare a riconoscere le potenzialità che i bambini hanno sempre, in qualunque momento della loro vita. La loro esistenza non assumerà un valore completo solo al termine dell’educazione e alla fine della loro condizione infantile. In ogni momento i bambini sono nel pieno delle loro capacità affettive, fisiche e cognitive. Cosa significa che i bambini sono sempre competenti e completi? Che anche appena nati sanno organizzare il proprio rapporto con il mondo circostante.
Se concepiamo i bambini come un vuoto, come esseri incompetenti, differiamo la loro cittadinanza in un futuro non meglio precisato. Come con gli stranieri: se otterranno la cittadinanza fra vent’anni, nel frattempo possono aspirare a una quasi casa, una quasi formazione, un quasi lavoro, una quasi sanità. Diminuendo ontologicamente una persona costruisci i presupposti per non garantirgli tutto quello di cui ha diritto.
Nei laboratori di progettazione partecipata nelle scuole ai quali mi è capitato di partecipare, i bambini che andavano meglio erano quelli che nelle lezioni ordinarie avevano più difficoltà. La dimensione laboratoriale ti utilizza per quello che sai fare, mentre il curriculum scolastico ti giudica in base a quello che ancora devi imparare. Siccome il laboratorio è un ambiente di lavoro complesso, c’è sempre qualche cosa che un bambino sa fare: quello che sa scavare non sa disegnare, quello che sa disegnare non sa scavare e quello che sa scrivere redigerà la relazione finale guardando quelli che scavano e quelli che disegnano. L’officina, il laboratorio, il cantiere mostrano il bambino nel pieno delle sue facoltà. E anche i bambini disabili o quelli che hanno problemi nella sfera dell’intelligenza, degli affetti, delle capacità motorie, trovano il loro spazio naturale. Questi contesti, trasferiti dalla scuola alla città, diventano un potente stimolo alla trasformazione. La città cambia quando qualcuno che ha un handicap scopre che non può attraversarla. La città cambia quando qualcuno che va a piedi scopre che è troppo piena di automobili. In questo modo si creano differenziali, gradienti, bisogni, scarti, che nascono dall’insoddisfazione, dall’inquietudine, dal bisogno e dal desiderio. Ed è solo su insoddisfazione, inquietudine, bisogno e desiderio che si incardina il cambiamento.