CORONAVIRUS E LA CITTÀ IDEALE
Parlare di città che ai tempi del coronavirus sono vuote e in questo particolare momento storico, preludio probabilmente di un cambiamento radicale dello spazio urbano, è difficile. Ma potrebbe anche essere il migliore. Perché l’emergenza sanitaria in atto sta dimostrando, tra le altre cose, che il tema del cambiamento climatico è strettamente connesso alle attività umane. Ora che le città sono ferme, i tassi di inquinamento sono scesi e la qualità dell’aria è migliorata nettamente. Rimbalza di conseguenza una riflessione su come gestire, dopo questa pandemia, le nostre abitazioni, gli spazi intermedi e le nostre città. E su come disegnare un modello che ci aiuti a vivere meglio. Cambiare abitudini e stili di vita può infatti contribuire a ridurre gli impatti sull’ambiente locale e globale, aumentando il benessere e anche l’occupazione. La severa lezione impartita da questo periodo dovrebbe spingerci a ripensare il rapporto tra uomo e cibo, a partire proprio dalle città che nel 2050 ospiteranno il 70% della popolazione mondiale. È l’occasione per realizzare una analisi attenta delle diverse criticità determinate da alcuni modelli di produzione agricola e zootecnica. La progressiva trasformazione ed eliminazione di sistemi naturali, unita ad altri fattori quali il commercio incontrollato e spesso illegale di specie di fauna selvatica, contribuisce in maniera rilevante a facilitare il passaggio di organismi patogeni dagli animali all’uomo. Già in un rapporto del 2007 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci metteva in guardia sulle infezioni virali come una delle minacce più consistenti in un pianeta sottoposto al grave cambiamento climatico, e lo ripeteva, con quella che oggi appare una profezia, ma era solo profonda conoscenza del mondo, nel 2015 Bill Gates. I virus, infatti, essendo patogeni che non vivono senza le cellule animali, cercano sempre nuovi ospiti. E noi gli abbiamo aperto le porte: le variazioni di pioggia e umidità, il riscaldamento, la vorace espansione urbana cambiano le interazioni tra le diverse componenti biologiche e quando le nicchie ecologiche si spalancano i virus colonizzano un nuovo essere (noi) comportandosi inizialmente in modo molto aggressivo. Il crollo dei consumi energetici nelle attività produttive, industria e servizi, e nel trasporto sta generando una riduzione delle emissioni di CO2 nel breve periodo. Questa riduzione che stiamo registrando durante la pandemia da coronavirus prevedibilmente non durerà dopo la crisi. E non dovrebbe portare a sottovalutare l’impegno necessario e di lungo termine per contrastare il riscaldamento globale. Le città sono praticamente prive di traffico da quando il coronavirus ha costretto tutti a restare a casa. Per evitare che a crisi finita si ritorni al traffico congestionato e inquinante delle nostre città si deve approfittare per aprire una riflessione su un nuovo modello di mobilità urbana post coronavirus. Entrando nel dettaglio, si avanzano alcune riflessioni e analisi che partono dal come è cambiato l’utilizzo degli spazi nelle abitazioni durante questa pandemia. Questo periodo ha, per esempio, messo in evidenza l’importanza di avere uno spazio dove poter lavorare o trascorrere momenti di svago. La pandemia ha insegnato l’importanza di balconi, terrazzi, cortili e giardini anche condominiali. Lezioni utili per il futuro. In pratica, andremo a consolidare la distanza sociale, nuova abitudine, attraverso la riorganizzazione degli spazi e la diminuzione di prossimità, dalla scala cittadina fino a quella domestica. In poche settimane abbiamo assistito ad una trasfigurazione dei luoghi e delle nostre relazioni con essi. Abbiamo visto le strade e le aree pubbliche sotto una nuova luce. Questo cambiamento ha già influito, in maniera più diffusa, sulla considerazione dell’utilizzo di mezzi di trasporto sostenibili – quali biciclette e monopattini – perché, dopo il coronavirus, sarà prevedibilmente più naturale preferire uno spostamento in solitaria. La verità è che desideriamo già strade più larghe per i pedoni, insieme a spazi protetti dal traffico per distanziarsi sufficientemente. Si dovranno anche ripensare le aree gioco, in modo da educare le generazioni future a un nuovo senso di spazio e di grandezza. Le istituzioni chiave, quali scuole e ospedali, si stanno modificando o riadattando: abbiamo visto in questi giorni la realizzazione di ospedali da campo modulari monta e smonta, come il caso di istituti scolastici con piccole stanze utili allo studio individuale. I nuovi stili di vita riguardano anche le abitazioni. Lo smart working, che tutti stiamo sperimentando, affiancherà nel futuro il lavoro fuori casa e si ripenseranno gli uffici come spazi di cui si conosce l’inizio e la fine.
L’incentivazione dello smart working, anche solo per alcuni giorni a settimana, andrebbe ad alleggerire la densità di utilizzo della città. La pandemia ha certamente dato un’impennata a tale modalità di lavoro, ma il sistema dovrà essere incrementato e finanziato da nuove strutture digitali urbane che possano ampliare il servizio e la velocità di scambio dati. Sottolineiamo anche l’importanza dell’housing nelle grandi città, evidenziando come le case-ballatoio della Milano Anni Sessanta siano un buon esempio di condivisione di spazi, un bene per la salute e la sostenibilità delle comunità future. In queste settimane dai balconi, tramite l’occhio di media e social network, abbiamo visto la manifestazione surreale di una natura che entrava in città. Proprio nello spazio urbano, la natura si è lentamente guadagnata terreno e forse si è proposta in una sorprendente postura di nuova convivenza con noi. A Milano uccelli selvatici passeggiano nelle vie, un’aquila reale vola sopra i caseggiati, gruppi di lepri nei giardini pubblici; a Cagliari i fenicotteri sono per strada e a Trieste i delfini nuotano nel porto. Anche le piante hanno incrementato la loro diffusione ricordandoci che quel meccanismo biologico, persino tra il cemento, non si ferma mai. Questo dimostra come esista una correlazione nel rapporto tra spazio antropico e naturale e come questo equilibrio sia fondamentale per la qualità della nostra vita. Chissà se, grazie alle immagini dei droni, ci siamo rivisti nelle piazze, sulle strade e nei giardini prima che accadesse tutto. Come nel film “Il cielo sopra Berlino” di W. Wenders, può essere che ci siamo scrutati laggiù nella fretta, nella frenesia, nella ressa di un tempo accelerato, brevissimo ed isterico? Abbiamo capito che il tempo è la più preziosa materia di questa epoca e che la sua qualità e il suo valore dovrebbero essere posti come priorità nella nostra vita sociale, pubblica e privata: occorre trovare ritmi nuovi, qualitativi, con diversi sistemi di mobilità e di utilizzo dello spazio pubblico per una nuova vivibilità urbana. Ecco allora la necessità di utilizzare nuovi strumenti di gestione come il Piano Territoriale degli Orari (PTO): una sorta di piano regolatore del tempo, utile al coordinamento delle attività lavorative e commerciali. L’obiettivo è quello di diluire nella giornata il flusso del traffico veicolare privato e pubblico e scaglionare gli orari di inizio e fine delle attività di uffici, negozi, spazi commerciali, scuole, attività sportive e ricreative. Di “piano regolatore del tempo” si parlava già negli anni ’90; dovrebbe essere rivisto e rielaborato in vista delle misure di distanziamento che il protocollo sanitario post-Covid ci impone.
L’introduzione di nuove isole pedonali e l’incremento di quelle esistenti darà poi un consistente contributo al traffico ciclabile e permetterà un maggiore utilizzo di dehors e tavoli esterni per i locali, favorendo così il distanziamento sociale e permettendo di accogliere un maggior numero di clienti. L’urbanizzazione espansiva ha divorato il suolo naturale, le strutture identitarie dei palinsesti culturali e le trame vegetali delle città, ha invaso ecosistemi delicati. Gli habitat urbani hanno invaso gli ecosistemi naturali, risvegliando ed espandendo malattie prima confinate e separate negli ambienti silvestri. È stata devastata la capacità degli insediamenti urbani di intrattenere le necessarie relazioni omeostatiche con le componenti naturali, è stato spazzato via il valore rigenerativo della cura dei luoghi di vita, così come sono stati interrotti o deviati i naturali processi circolari e armonici tra uomo e natura. Alla rigida separazione – figlia del Movimento Moderno – dei luoghi dell’abitare, del lavorare, del divertirsi o del produrre dobbiamo sostituire un progetto urbanistico prima, e architettonico dopo, di luoghi ibridi che, aiutati dall’innovazione tecnologica e digitale, possano accogliere funzioni temporanee e multiple entro un ciclo che guardi all’arco della giornata o dell’anno nella distribuzione delle funzioni, nell’attrazione di usi ad elevata carica di innovazione; non più case, uffici, piazze, strade, parchi, ma luoghi che siano insieme case, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, interpretando più ruoli con un nuovo e più complesso copione urbano. Gli artisti e le api lo sanno molto bene: il modo migliore per disporre gli oggetti nello spazio non è il quadrato, ma l’esagono. A parità di persone ci sarà più spazio, o a parità di spazio ci staranno più persone. L’arte naturale ed il disegno geometrico dell’alveare consentono di modificare prospettive e fornire soluzioni innovative ed armoniche, per ripensare il nostro rapporto con l’ambiente meno denso, meno invasivo, più piacevole e rispettoso. La geometrizzazione rigorosa della scelta urbanistica prima ed architettonica dopo, rimanda simbolicamente alla perfezione della città ideale rinascimentale. Questa doveva rispecchiare la sua perfezione terrena attraverso le regole razionali della prospettiva e della geometria. L’immagine che più compiutamente rappresenta questa forte idealità simbolica è senza dubbio la città di Sforzinda, concepita dall’architetto trattatista Filarete, tipico esempio di città ideale, la cui geometrizzazione rigorosa del poligono a stella rimanda simbolicamente alla perfezione della società che entro quegli spazi doveva vivere, secondo un modello etico e gerarchico egualmente perfetto e privo di conflitti, quasi un’implicita ammissione che può esistere, nel mondo imperfetto degli uomini, una società tanto omogenea e pacifica da poterla abitare.
La cultura filosofica e letteraria del Rinascimento concepisce la città come istituzione ordinata. Allo stesso titolo i trattati di architettura, occupandosi ampiamente di questioni urbanistiche, esprimono l’esigenza di coordinare gli interventi sulla città secondo principi che rispecchiano un perfetto ordine sociale. Da qui gli innumerevoli disegni di città a pianta pentagonale, esagonale, ottagonale, a stella, con l’esaltazione della sua forma sul territorio e della geometria dei suoi tracciati interni. Sino a giungere al disegno della città ideale basato sulle proporzioni della figura umana: l’umanista, con semplice trasposizione afferma che la piazza deve essere posta “nel mezzo e nel centro d’essa città, siccome ombelico dell’uomo”. Si pensi allo stesso Leonardo Da Vinci, quando per la città di Milano propose un piano di ammodernamento e di espansione immaginando una città a più livelli. I suoi progetti ruotano attorno alla ridefinizione della struttura della viabilità, pensando alla distinzione delle vie di comunicazione a seconda delle funzioni. Il nuovo impianto organizzativo ha luogo a partire dalla previsione di una rete di canali alimentati da acque veloci per non inquinare l’aria e ricche per “lavare spesso la città”, esigenza dettata da questioni di ordine igienico e sanitario, riferita alla situazione contingente di una Milano sconvolta nel 1485 da un’epidemia di peste. I canali sono oltretutto collegati alle residenze, ai mercati, alle piazze e con lo scopo di razionalizzare il rapporto tra questi elementi urbani, Leonardo giunge a progettare tipologie edilizie a più piani, con un tessuto urbano insolitamente aperto per il suo tempo, con le strade rettilinee ampie circa quanto l’altezza dei palazzi signorili che vi prospettano, questi a loro volta abbelliti con portici, attici e terrazzi.
La volontà di teorizzare una città ideale (dunque perfetta) nasce dall’amore per la città reale che, proprio a causa delle sue inadeguatezze spaziali e sociali, stimola i principali artisti rinascimentali ad una progettualità nuova e fantasiosa.
E questo è l’itinerario da percorrere per la città – e per il nostro stile di vita – nel post emergenza sanitaria. Come fosse un nuovo Rinascimento.