Introduzione

di Mario Spada

Prima che la pandemia costringesse l’intero pianeta a misurarsi con le drammatiche conseguenze della sua diffusione, circolava, tra coloro che si occupano di politiche urbane, uno slogan: “la città in 15 minuti”. Ideato da Carlos Moreno docente di urbanistica alla Sorbona e fatto proprio dalla sindaca Hidalgo come programma di mandato per la sua rielezione ha animato una riflessione sul futuro della città che ha trovato ampio spazio anche nei mezzi di informazione più popolari. La proposta, accompagnata da accattivanti disegni che prefigurano una sorta di “felicità urbana”, ha il merito di aver inviato un messaggio di speranza in un periodo dominato dall’incertezza. Sperimentazioni di questo tipo sono già praticate  negli Stati Uniti e in Australia nelle città di Portland  e di Melbourne  con lo slogan “la città in 20 minuti”. Sono progetti che hanno in comune il tempo come fattore strategico delle politiche di Piano che prevedono la possibilità di raggiungere da casa tutto ciò che serve per vivere, studiare, lavorare e divertirsi nel tempo di una salutare camminata o  di un giro in bicicletta.

Ma l’attualità della “città in 15 minuti” dipende essenzialmente dal fatto che quasi tutti i sette miliardi di persone che abitano il pianeta hanno vissuto o stanno ancora vivendo il lockdown, hanno visto ridotto drasticamente il proprio raggio d’azione limitato dentro i confini del proprio quartiere, hanno toccato con mano la desolazione e insicurezza delle strade quando le serrande dei negozi sono abbassate. E allo stesso tempo hanno intravisto possibili cambiamenti positivi delle abitudini quotidiane come un uso limitato dell’automobile, con la relativa riduzione drastica dei fattori inquinanti, hanno sperimentato il mutualismo di vicinato , forme elementari di abitare condiviso, pregi e difetti  dello smart working e  della didattica a distanza . Miliardi di persone, senza volerlo, stanno dentro un gigantesco esperimento sociale di resistenza umana che non può non avere conseguenze nel futuro .  In modo traumatico la pandemia ci ha resi più consapevoli dei limiti, dal limite della esistenza umana e delle risorse naturali alla necessità di porre un limite ai comportamenti individualistici e alle diseguaglianze sociali.  Non è più praticabile un modello di sviluppo incentrato sull’idea di un progresso economico senza limiti , è necessaria  una revisione dei fondamenti su cui basare la nostra esistenza e il funzionamento delle città nelle quali viviamo.  Il trauma sociale è tanto profondo e radicale che può essere superato solo con una visione altrettanto radicale del   cambiamento che dovrà avere il segno inequivocabile della riconversione ecologica  .

Torna attuale il motto ambientalista “pensa globale agisci locale”. Pensare globale perché la pandemia, come il riscaldamento globale, mette in pericolo la stessa esistenza dell’uomo sul pianeta. Agire locale perché   ognuno può contribuire alla riconversione ecologica partendo dal luogo nel quale può agire di più e meglio : il proprio quartiere. Di fronte a uno scenario globalizzato dall’ informazione e dalle tecnologie digitali, si fa più pressante il bisogno psicologico e sociale di identificazione e radicamento in un luogo dove dare più valore alla vita quotidiana, dove si possa esplicare l’insopprimibile bisogno di socialità , al quale si possa attribuire un particolare valore simbolico .  Non a caso le iniziative di rigenerazione urbana generano laboratori di quartiere, case del quartiere, scuole di quartiere . E’  nel proprio quartiere che i cittadini avrebbero voluto trovare quella struttura sanitaria decentrata tanto invocata nel corso della pandemia . E’ nell’ambito del quartiere che le scuole possono promuovere attività extra scolastiche in collaborazione con le associazioni locali, possono colonizzare spazi aperti e edifici dismessi per promuovere una cultura diffusa, possono proporsi come centri civici.

Progettare la prossimità comporta il potenziamento e la proliferazione delle reti di mobilità pedonale e ciclabile che assicurino l’accessibilità sostenibile ai principali  servizi . La mobilità dovrà essere strutturata su reti a maglie strette per il quartiere e a maglie larghe per garantire le relazioni con la città nel suo insieme. Non è in gioco la pianificazione di area vasta, non ha senso realizzare piccoli paesi autosufficienti. Si tratta di promuovere una città a misura d’uomo, che assicuri a tutti i suoi abitanti – in particolare a quelli che vivono nelle aree del malessere, dell’ esclusione  e della disuguaglianza urbana – di poter fruire dei servizi essenziali senza rinunciare alla città. La pandemia e i provvedimenti per contrastarla stano facendo emergere ciò che accomuna, un interesse generale che prevale sull’interesse individuale.  Sono molti i segnali che suggeriscono un immaginario positivo dello stare insieme che rispetti le differenze ma sia capace di rafforzarsi continuamente attraverso l’azione comune, attraverso pratiche quotidiane che tuttavia non escludono il conflitto.  Nella prospettiva di un futuro   ritorno alla normalità è prevedibile una riconquista sociale degli spazi pubblici con il contributo delle energie creative a lungo represse dalla pandemia che potranno dare un nuovo volto alle città , far emergere quel bisogno di socialità che è premessa per la costruzione di comunità coese in grado di tutelare e valorizzare  i beni comuni ,come la Salute, l’Istruzione , l’Ambiente. A vantaggio di tutti e in particolare dei bambini e delle nuove generazioni che hanno sofferto molto e ai quali vogliamo consegnare un mondo migliore.

UN ARTICOLO DA URBANISTICA INFORMAZIONI http://www.biennalespaziopubblico.it/ui_298-299_spada/