Bambini e spazi aperti

Anna Lisa Pecoriello
( Associazione La città bambina )


Le trasformazioni dell’ambiente urbano nella modernità sembrano avere messo in atto un processo sistematico di espulsione dei bambini dallo spazio pubblico che, oltre ad essere sotto gli occhi di tutti, è stato ormai ampiamente analizzato dalla letteratura sull’argomento. Spesso questo processo è avvenuto silenziosamente e in nome di esigenze di controllo e protezione dei bambini stessi, passate attraverso le pratiche educative e la creazione nell’ambito della pianificazione di luoghi “dedicati” all’infanzia con effetti di segregazione in spazi (e tempi) predeterminati e precostituiti. Un esempio di questi spazi è il playground, il parco-giochi, luogo della infanzia moderna e simbolo di questa segregazione/protezione. Ora forse siamo in una fase ancora successiva, quella dell’infanzia post moderna nella quale gli spazi dell’infanzia si sono ancora ridotti nella città reale e dilatati nello spazio virtuale, o ramificati in spazi chiusi e controllati che ormai si estendono anche all’extra scuola. Ma gli spazi dai quali i bambini sono stati espulsi sono anche gli spazi naturali, soprattutto quelli del “selvatico” in città, spesso i più interessanti perché offrono maggiori possibilità di accessibilità, gioco immaginativo, trasformativo e di avventura. La natura per molti bambini rimane fruita negli spazi eterotopici delle riserve naturali, i recinti sacri della natura più o meno incontaminata, o nelle esperienze di “educazione ambientale” guidate dagli operatori specializzati, senza alcuna comprensione della esistenza di un sistema ambientale che sottende l’ambiente costruito dove si svolge la vita quotidiana.
La presenza di bambini liberi di vagabondare per le strade o nelle aree di risulta e abbandonate, senza il controllo degli adulti, sembra destinata a restare relegata nei ricordi d’infanzia degli adulti di questa ultima generazione. Negli anni ‘70 Colin Ward è stato uno dei primi ad evidenziare questa tendenza, e ad avvertire i rischi di trasformare l’infanzia in una condizione di cattività nella quale il bambino è ridotto a consumatore di merci e servizi a lui dedicati. La consapevolezza di queste trasformazioni ha, in questi ultimi anni, dato origine a esperienze innovative ma anche paradossali, come i campi gioco d’avventura, nei quali si cerca di restituire all’infanzia ciò che le è stato tolto riproducendo artificialmente le condizioni di un’esperienza che prima avveniva spontaneamente, oppure i progetti di percorsi sicuri casa-scuola a volte basati su una riconquista dell’autonomia subordinata alla creazione di condizioni di protezione ancora una volta risultanti nella segregazione in spazi protetti e controllati per non intralciare il traffico delle automobili (le bambinovie), piuttosto che in una riequilibratura dei rapporti di forza nello spazio pubblico che si sia volta in favore dei bambini. In questi anni, infatti, la strada ha continuato a essere il luogo dello scorrimento del traffico automobilistico e non della compresenza democratica di più soggetti; le piazze e gli altri spazi pubblici della città sono sottoposti a un regime di controllo sempre più pervasivo, che arriva a coinvolgere il gioco dei bambini come l’arte di strada, l’accattonaggio come il consumo di cibi da asporto, nei regolamenti sempre più repressivi della polizia municipale. Insomma, pare che il vecchio slogan “Una città che va bene per i bambini è una città che va bene per tutti” debba essere riscritto con la consapevolezza della forte conflittualità sociale che hanno creato le richieste dei bambini (come di altri soggetti devianti dall’ordine costituito della pianificazione) di potere occupare lo spazio pubblico con le modalità a loro proprie.
Si è rafforzato in Europa negli anni ‘90 un settore di studi che, in nome di una visione dell’infanzia non come condizione biologica ma come costruzione sociale che si ridefinisce nello spazio e nel tempo, cerca di decostruire l’immagine del bambino come essere in divenire bisognoso di protezione e di mostrare come invece i bambini abbiano competenze, desideri e volizioni proprie, pur se radicalmente diversi dagli adulti, che li rendono tutto sommato irrappresentati e irrappresentabili dalla società. Per questo molti oggi pensano che ai bambini vadano lasciati molti spazi di libertà, di autonomia, che vada loro riconosciuto il diritto ad essere considerati human beings not human becamings, attori possibili della trasformazione del proprio ambiente di vita, attraverso la riapertura di spazi di autonomia e di partecipazione alla vita sociale.
Le esperienze di progettazione partecipata che hanno coinvolto i bambini negli ultimi anni, tuttavia, hanno spesso prodotto molta politica d’immagine e poche realizzazioni, in ogni caso mai hanno fatto sistema e si sono tradotte in cambiamenti delle politiche. Le poche esperienze portate a termine in modo isolato hanno spesso tradito le richieste dei bambini, che si sono scontrate con i linguaggi e le regole dei tecnici e con la normazione dello spazio pubblico, che plasma gli spazi in nome delle esigenze di sicurezza, declinate solo come esigenze di coloro che hanno il carico della gestione degli spazi di non essere implicati nella catena delle responsabilità (quando accade ad esempio che un bambino si fa male).
Il tema della possibilità di assumersi un rischio è fondamentale, se vogliamo restituire al gioco l’aspetto dell’avventura, e cosa questo significhi in una società di adulti responsabili è un tema ancora irrisolto. Così come è fondamentale il tema del rapporto con gli elementi naturali primari, che viene negato all’interno delle aree di gioco tradizionali invece di favorirne il contatto: aria, acqua, terra, legno, fuoco sono elementi più stimolanti di costosi scivoli e altalene ma da essi i bambini vengono tenuti lontani, pur essendo a detta di molti esperti strumenti essenziali di crescita e di conoscenza del mondo. Infine c’è il tema delle esigenze manipolative e trasformative che i bambini hanno nei confronti dello spazio. Le aree di gioco, così come le aree verdi, sono caratterizzate dalla “fissità” degli elementi, dall’orizzontalità, dalla povertà di elementi di “biodiversità”… Tutto è determinato dalle esigenze di localizzazione residuale, bassi costi, facilità di manutenzione, rispondenza alle normative di sicurezza e alle esigenze di controllo degli adulti. Nulla più risponde alle esigenze dei bambini. Come la scuola, i cui orari sono modellati sulle esigenze degli adulti/lavoratori, che siano gli insegnanti che devono accumulare un minimo di ore settimanali per arrivare allo stipendio, o i genitori che devono andare a lavorare e avere dei luoghi nei quali lasciare i propri figli.
L’attenzione e la cura ossessiva dei bambini nella nostra società, paradossalmente, hanno sortito effetti oppressivi e repressivi che sono più evidenti proprio nello spazio pubblico. Viceversa altri bambini, in altre circostanze e strati sociali, vivono condizioni opposte di mancanza di cura e attenzione e producono altri tipi di presenze nello spazio pubblico, caratterizzate dal segno della violenza o del vandalismo. Le esperienze più interessanti svolte in questi anni nei quartieri degradati, cercano di lavorare sulla riappropriazione degli spazi e sul senso della cura, nell’ottica di costruire cittadinanza attiva e senso di appartenenza a una comunità in grado di riprendere possesso della propria esistenza. In questa direzione vanno le pratiche partecipative orientate alla trasformazione dello spazio attraverso l’autocostruzione, che ancora non trovano uno statuto all’interno della normazione dello spazio e si esprimono in forme spesso conflittuali con le istituzioni, o contraddittorie con l’esigenza di normalità e di legalità da ripristinare nei contesti fortemente deprivati.
Il dialogo tra urbanisti ed educatori in questa fase è fondamentale, ed è una delle strade più fertili da percorrere per riportare i bambini nello spazio pubblico, ma anche nello spazio della discussione sul concetto di “pubblico”.