AD 1 METRO DI DISTANZA

Architetto Tiziana di Zinno

Per chi ha voluto prenderne atto, il tempo brevissimo di sessanta giorni è bastato per denudare i millantati traguardi del nuovo millennio.

Primo tra tutti, lo stile di vita metropolitano, basato sullo spostamento quotidiano di immani masse di persone e cose, per stiparle in multipli di mille in ipertecnologici grattacieli, ha perduto la sua ragione d’essere svelandosi non solo ottuso artificio utile soltanto ad alimentare consumi e scarti -di beni e di risorse-, ma struttura rigida e inadatta a cambiare con il mutare delle esigenze – di studio, di lavoro, di relazioni.

Secondo, la parità di genere, e la sua possibilità di scegliere ogni tipo di professionalità per entrambi i genitori, sorretta -come un acrobatico filo di ragnatela- dalla maglia di nidi, post-scuola, tate, calcetto e nonni ancora giovani, è entrata in profonda collisione con il bisogno primario del nucleo familiare: il prendersi cura. L’individuo, nelle sue scelte individualiste, avulse da un ruolo sociale che ha il suo principio nella famiglia, senza un sistema istituzionale, senza un tessuto familiare solido, rimane una persona sola e isolata.

Terzo, la globalizzazione in tempo reale, garantita – oltre che dai boeing – dalla connessione h24, che ci magnifica mentre carpiamo l’affare della nostra vita, per quanto salvifica in numerosi ambiti, ha manifestato risvolti più o meno subdoli. Virus e vaccini a parte, sono crollate le furbesche filiere avanti e indietro intorno al globo terrestre, e magari anche l’assurda abitudine di far bere le acque del Pollino ai trentini e quella della Valtellina ai siciliani. Magari qualcuno, nel frattempo, si sarà accorto che l’acqua del rubinetto è potabile.

Per chi ha voluto prenderne atto, i millantati traguardi del nuovo millennio sono allora illusioni e chiari fallimenti da cui si può ripartire solo ribaltando la visione: la dimensione dell’Uomo appartiene al quartiere; la rinuncia del superfluo e la condivisione del necessario sono l’unica via possibile, già tracciata dal passaggio della pandemia.

Una nuova socialità. Cosa potrà mai essere, se non quella vecchia? Quella fatta di amicizie fidate, parentele solidali, dal tessuto del quartiere, dai presidi territoriali fatti di occhi aperti e mani tese? Se non quella raggomitolata e srotolata sul marciapiede sotto casa? Ancora oggi, sui marciapiedi di Bari vecchia, qualcuno prepara a mano le orecchiette. Per folklore? Forse. Ma quando era prassi, era espressione di una cultura, cultura anche dello spazio pubblico: lo spazio pubblico quale luogo dello scambio – di chiacchiere, di

conoscenze, di tempo, di vita – dell’incontro e della sosta, luogo di fondatori e non di colonizzatori, luogo dove si trova se stessi e si sceglie con chi stare.

Lo spazio pubblico è una sorta di specchio: riflette le vite delle persone che lo attraversano, che lo riempiono, che lo svuotano. Si lascia modellare dai segni, dai tempi, dai valori che ciascuno di noi abbandona o saccheggia, ad ogni passaggio. Ma è anche vero il contrario, perché il degrado dell’ambiente genera degrado e la bellezza altra bellezza, secondo una magica, reciproca influenza, benefica o nefasta.

C’è un elemento che più di tutti è in grado di generare bellezza, rigenerandosi, stagione dopo stagione: l’elemento naturale. Festa di colori, armonia di profumi, melodie sempre nuove, spesso dolce al palato: la rappresentazione della felicità dell’uomo sulla terra, ricreata nei giardini imperiali, nei chiostri medievali, nelle ville suburbane, ampolle di stupore e meraviglie. Il meraviglioso, nel quotidiano.

Il quotidiano da riscoprire è fatto allora di bellezza, quella che aiuta a trovare la propria virtus, il proprio ruolo nella civitas. E’ fatto di gioco e di letizia, perché soltanto il gioco ci insegna a creare relazioni pure e stabili, a ridere e sorridere, a capire le regole e imparare a rispettarle, a misurare noi stessi davanti ad una sconfitta o una vittoria, a condividere un fine e lottare per raggiungerlo.

 Lo spazio pubblico ha un grande ruolo ora che le porte sono aperte. I progettisti, per primi, rincorrano il meraviglioso e tornino a giocare: con canali vegetali di aleagno e croton, fasce filtranti di areca palmata, griglie ordinatrici di aceri e betulle, labirinti di fiori e spighe; con il cromatismo e il simbolismo delle pavimentazioni, con materiali antichi e materiali d’avanguardia, con melodie d’acqua, elemento purificatore. Creino bolle di relazione; nuove stanze con un tetto di alberi e uno di canne di bambù; per ogni stanza un messaggio, esempio di un nuovo stile di vita;

Il sorriso del progettista ricopra di meraviglioso anche una semplice passeggiata. Arzigogolata, zigzagata, ritmata dalla rosa dei venti o avvitata su una spirale, tracciata sull’alfabeto greco o sui numeri romani, profumata di lavanda o di citronella, scandita dal gioco dell’oca, da una campana o da una partita a scacchi e a dama, purché nessuno sia abbracciato alla regina o seduto su una pedina…affinché l’esperienza vissuta con l’emergenza sanitaria ci lasci in eredità la nostra cultura di comunità, il ritorno all’antico concetto di limite, il ‘modus’ dei latini, la giusta misura: il rifiuto degli eccessi, il culto della moderazione, per riacquistare una visione pulita dei valori e ricominciare a prenderci cura, in modis miris.